Debutto

UN FIORE TRA LE PIETRE 2014

Questo libro nasce da un’esperienza in Guatemala a fianco di una équipe sanitaria. Intorno a un minuscolo villaggio, abitano creature disperate e bisognose. Le storie raccontate sono vere come vere sono state le loro sorti. Anche se in chiave di romanzo, si narrano le drammatiche vicende di queste persone. I fatti si intrecciano e si confondono, come le loro aspirazioni e le loro contraddizioni. Tormenti di un paese dove la sopravvivenza, specialmente per donne e bambini, si svolge tuttora in condizioni drammatiche. Alla povertà si associa l’ignoranza e una mentalità machista e violenta. Brutalità e sopraffazioni, compravendita di bambini per adozioni illegali o sequestri per traffico clandestino di organi. Solo chi ha fede nella propria illuminazione, nel desiderio di cambiare ed evolversi, riesce a salvarsi. Spesso però pagando con sofferenza estrema.

L’autore ha deciso di donare il suo bel romanzo alle bambine, ai bambini e ai giovani di strada della capitale del Guatemala, organizzati in un movimento autogestito di amicizia: “il Mojoca”. E, come per altre iniziative simili, i proventi della diffusione di questa prima straordinaria edizione saranno investiti nei progetti che specificamente Amistrada sostiene in Guatemala in favore di quel gruppo autocostituitosi per emergere dall’inferno della strada.

 

 

Prefazione:

Sono stato un mese in Guatemala, come medico volontario in una zona rurale dell’est del paese. Io dormo ovunque. Può essere lo Sheraton o un tavolaccio da convento. Io dormo lo stesso. Anche sui mezzi di locomozione: traghetti, treni, corriere, autobus, o furgoni improvvisati al trasporto passeggeri. Le corriere sono le mie preferite. Il rumore costante e spesso fragoroso dei motori diesel è l’ideale per ovattare tutto ciò che vive e si muove intorno a te, e cullarti velocemente in un meraviglioso limbo senza sogni e senza preoccupazioni.

Sì, è vero. È un po’ come uno scacciapensieri, uno spaventapasseri, un Autan che non si spruzza né si spalma. Ci sei dentro al sicuro da qualsiasi programma o impegno: tanto se ne riparlerà quando finisce e ci si ferma. E non ti dà nemmeno la sensazione vagamente claustrofobica delle zanzariere. Penso che dovrebbero inventare un pullman speciale da portarsi appresso quando si viaggia in missione. Tu la sera lo metti in moto, magari con lo scappamento fuori della finestra, e ti fai una dormita di quelle che svieni appena appoggi la testa sul cuscino.

In aereo no. Non m’è mai riuscito, e benché lo usi da decenni ormai, e sempre con lo stesso entusiasmo di un bambino, non c’è verso di appisolarsi per una pennichella, meno che mai per un sonno ristoratore.

In questo viaggio verso il Guatemala, fino a Madrid il volo era stato sufficientemente vario e divertente come sempre. Da lì in poi la traversata fu interminabilmente noiosa e, nonostante i film e gli snack, in virtù dell’antica emozione per il volo, di dormire neanche a pensarci.

A dire il vero il viaggio era iniziato molti mesi prima, quando avevo deciso di rivivere il mio vecchio amore per il volontariato, e avevo contattato una onlus che portava avanti dei progetti in Centroamerica.

Altre volte mi era capitato di avvertire netta la sensazione che quel bivio, quel semaforo, erano lì ad aspettarmi da tanto tempo, e che la direzione che stavo prendendo era quella giusta. Ti può capitare che nel corso degli anni percepisci una spinta verso qualcosa di indistinto che ti chiama. E capita poi che ti spingi a fare varie esperienze, li chiamo ‘i miei giri fuori porta’, senza però percepire una profonda certezza che la strada davanti a te sia quella giusta. Ma quando questa arriva, allora non hai dubbi: quella e non altre è la ‘tua’ strada.

Era successo la prima volta a quindici anni quando ero entrato in croce rossa come volontario. Un fermento forte e appassionato che mi protendeva verso gli altri e dentro la mia anima.

Poi la scelta di diventare medico. Le due distinte pratiche specialistiche, la prima come odontoiatra, poi la psicoterapia, e la definitiva svolta, prima esistenziale poi professionale. Scelte sempre difficili, a volte dolorose.

Ma ecco che, nella presunta maturità, quando pensiamo di aver trovato risposte e stabilito i confini del nostro ‘esserci’, si era presentata questa intuizione a spingermi di nuovo avanti e, contemporaneamente, ancora una volta verso la mia essenza.

E così me ne stavo in un aereo dell’Iberia diretto a Città del Guatemala, dove avrei trovato qualcuno ad aspettarmi, per portarmi da qualche parte verso est, vicino al confine, in qualche paesino che ancora non era segnato su molte carte geografiche. Dove sarei stato alloggiato da qualcuno, e avrei fatto il medico per qualcun’altro che veniva da qualche lontana parte sulle montagne intorno.

C’è tanta, ma tanta gente che lo fa. Tanti giovani e meno giovani che silenziosamente e con umiltà fanno i loro giri fuori porta: alcuni per incontrare il loro destino, altri perché lo hanno trovato. Capita a volte di incontrare poca umiltà e molta presunzione o arroganza, ma il motore che gira è sempre quello migliore.

E, insieme a questa moltitudine di viaggiatori, migliaia di altre persone, senza muoversi dalle loro case, collaborano a rendere vicino tutto ciò che è lontano, e proprio le difficoltà e la disperazione di altre migliaia, ovunque si trovino.

Non avevo scelto una destinazione facile e spesso già nei primi giorni m’era parso che fosse stato il luogo a scegliere me. Mi ero documentato come potevo sulla cultura e le abitudini locali. Soprattutto i problemi.

E qualcosa di particolare mi aveva colpito persino in aereo. Due giovani donne, vedendo il quotidiano che leggevo, mi avevano chiesto da dove venissi e dove stavo andando. Senza particolare enfasi ero rimasto nel vago. Eppure dai loro commenti e dal modo di rivolgersi a me avevo notato una gentilezza riverente, inusuale per la mia cultura. Escluso che potessi essere di alcun interesse estetico per loro, o che potesse venirmi attribuita una importanza che non avevo, rimaneva l’attenzione ossequiosa e un interesse davvero premuroso, quasi reverenziale, che sulle prime mi aveva anche messo in imbarazzo. L’episodio era stato archiviato ma non cancellato.

La persona con cui feci le quattro ore e passa di strada fino a destinazione si prodigò a illustrarmi i valori popolari, ruspanti ma caldi, di quelle terre lontane. Un medico, anche lui impegnato politicamente per il progresso del paese. Nel tragitto ci fermammo per una birra in un bar che esponeva il laconico divieto di accesso con armi. Il mio compagno apostrofò la cosa spiegandola come una usanza locale. Il buon padre, se benestante, regala personalmente la prima pistola al figlio. Nel bar c’erano solo uomini ovvio, ma mentre mi dissetavo avevo preso a sbirciare la notizia in prima pagina di un quotidiano della provincia. Un ennesimo rapimento di minori. Nessun commento da lui, se non una digressione sulle aberrazioni cui poteva condurre la povertà e l’ignoranza, l’atteggiamento machista degli uomini, la remissività dolorosa delle donne e la rabbia generale delle classi più umili. Vite disperate che si perdevano nella promiscuità delinquenziale, fin dove non sempre era chiaro il confine tra il carnefice e la vittima.

Il lavoro di tutti i giorni non era molto, e io avevo molto tempo per gironzolare tra la gente in quelle stradine assolate dove non piove mai. Ma proprio mai. Mi guardavo intorno curiosando tra quelle casupole e i mercatini. Soprattutto la gente. Se all’interno della piccola missione spiccava di nuovo l’atteggiamento deferente, quasi servile, del personale femminile, specie le inservienti, a riprova di un costume ben radicato, osservando gli uomini molti tasselli si aggiungevano a comporre il grottesco puzzle. C’era una netta distinzione tra la gente comune e i benestanti che procedevano a testa alta, vagamente sprezzanti come conquistadores. Altri parlottavano tra loro sulla necessità di un governo forte e inesorabile contro gli oppositori. Nessuno dava confidenza, e mai li ho visti rivolgersi a chi fosse di una classe inferiore, né degnare di uno sguardo donne o bambini, che anzi si tenevano alla larga. Qualcuno ostentava una pistola automatica al fianco, come la sciabola da cavaliere. Poi c’erano individui, come li ho descritti tra le pagine, che evidentemente vivevano ai margini e oltre della legge. Qui l’ostentazione delle armi, grosse ma vetuste, era un monito piuttosto che un blasone. Giravano spavaldi e indaffarati, come avessero un impegno perennemente urgente. Quindi la moltitudine di contadini e abitanti delle alture. Con le loro casacche bianche e i leggeri pantaloni, giravano muniti del lungo machete tradizionale legato alla cintura, o fissato in vita con uno spago. Le donne infine, dimesse e frettolose, si affaccendavano alla spesa e parevano evitare di soffermarsi troppo davanti alle bancarelle. Bambini quasi niente in giro e mai soli.

Ovunque manifesti politici dalle parole infiammate e battagliere, e in nessun posto l’ombra di un poliziotto o gendarme.

Niente librerie o giornalai. Solo rari quotidiani di qualche giorno prima, che ristagnavano in ambulatorio dimenticati o usati per asciugare macchie sui pavimenti.

Lì si scriveva il seguito di quanto avveniva per strada. Scippi e furti all’ordine del giorno. Se la polizia non arrivava in tempo, succedeva che i malviventi fornissero alla popolazione inferocita ed esasperata l’occasione di sfogare tutta la rabbia in drammatici linciaggi.

Poi c’erano le violenze domestiche sulle donne e le aggressioni, spesso mortali, a quelle madri sospettate di aver simulato un rapimento e venduto invece i figli, Capitava così che qualche marito si fingesse ignaro e facesse giustizia sommaria della consorte salvando la faccia e la pelle.

Ma tutti i giorni si parlava di ‘quel’ rapimento. Se ne parlava e si ricordavano episodi precedenti finiti male o peggio. Si aggiornava l’opinione pubblica sulle ricerche e di nuovo sulle misure adottate per difendere i sospettati dalla furia della gente. Camion di gendarmi piantonavano le abitazioni di chi veniva associato al reato, e tutto intorno il macabro fantasma dell’incerto destino riservato alla creatura. Le adozioni illegali o il traffico clandestino di organi. Tutto organizzato, pagato e diretto verso i ‘paesi civilizzati’, a nord e a est.

Ogni giorno, in ogni luogo, si commentava sulla sorte della piccola vittima e le notizie arrivavano come a scandire i miei giorni in quella terra. Una volta, durante il giro per rifornimenti alimentari della missione, tempo ne avevo, sono incappato in un paesino arido e arroventato. Anche lì povertà e desolazione. Una sola piazzetta, capolinea dei rari bus, e un largo viale di basse case male in arnese. Un piccolo cimitero disadorno con i sepolcri caratteristici, basse strutture quadrangolari a malapena intonacate. E una miriade di casupole sparse disordinatamente intorno come papaveri in un campo. Solo durante il tragitto di ritorno seppi che quello era il villaggio dell’ultima vittima.

E così fino all’ultimo giorno quella triste storia mi ha seguito e ossessionato. Giorno e notte. L’ho sognata e l’ho ritrovata ovunque, tutti i giorni, in ogni pagina, in ogni luogo, in ogni conversazione.

E durante tutti questi anni mi ha continuato a seguire, triste e tenera, e sussurrare insistente all’orecchio. Perché? Cosa vuoi? Cosa posso fare per te? Mi sono trovato più volte a chiederle.

Solo quando ho deciso di prendere la penna e raccontare questi eventi ho sentito di nuovo l’emozione trascinante della ‘via giusta’. Le parole, prima incerte e affollate, sono sgorgate in un impeto travolgente come se non aspettassero che il mio consenso e tramite.

E non solo la storia di povere anime private del bene supremo, ma la storia di un popolo un tempo vinto e dominato, che ancora stenta a sorgere. La storia di una inesauribile disperazione che annienta ogni valore e affetto.

Il pianto muto di chi soffre e sa che non ci sarà nessuno ad ascoltare.

Vorrei appartenere a quelle migliaia di persone che anche stando a casa riescono ad ascoltare le parole disperate gridate da tanto lontano.

 Roma, 8 ottobre 2014