Legittima offesa 2018

LEGITTIMA OFFESA 2018

 

Due palazzi, molte famiglie. Passate ferite e drammi attuali.
Sotto il manto della rispettabilità si annidano pregiudizi e debolezze morali.
Ai piani alti ci si barrica in un paradiso illusorio, nel sotterraneo disperati e clandestini sopravvivono in un inferno civile.
Vite che marciano su binari paralleli, spesso si intrecciano, talvolta entrano in collisione. Qualcuno assiste ricordando il proprio martirio. Ogni epoca ha il suo olocausto.
La storia sembra non insegnare, come una fiera chiede la sia carne sanguinante.
Anche nella nebbia più fitta però c’è sempre una strada.

Il destino può essere scelto.

 

 

 

 

La polizia trova un uomo assassinato e un ferito grave in uno scantinato, regolari e irregolari.

Oltre a loro un nigeriano morto per cause naturali che in mano ha un oggetto.
Gli abitanti italiani dello stabile di fronte commentano sarcastici e inferociti.
La vecchia signora Eva nella sua ingravescente demenza passa le ore alla finestra e sembra l’unica a conoscere le storie che si sono presentate ai suoi occhi.

Una famiglia pakistana abita nella prima parte del sottoscala. Il padre lavora in una frutteria e la moglie casalinga cerca di crescere i suoi figli: la minore ( Marikha) e la più grande (Fatima) secondo la tradizione. Il figlio maggiore, Saif, vive di espedienti e come scagnozzo del proprietario dello stabile; insieme a Robert, il ragazzo romeno del secondo piano, recuperano crediti per conto del padrone italiano presso i clandestini e altri affittuari assiepati nelle cantine.

Ci sono quattro siriani, profughi e reduci della guerra, ciascuno con i suoi segreti e paure; nessuno si fida degli altri, e ciascuno porta un fardello che, tuttavia, verrà inesorabilmente alla luce.

Una giovane famiglia afgana arriva dopo un lungo drammatico viaggio. Una coppia e un bambino che sembra l’unico testimone lucido e teneramente consapevole della tragedia vissuta. Nella sua innocente trasparenza ricorda le traversie, la morte in mare di sua sorella, e il bisogno di credere nel domani. Ha con se solo un soldatino a cavallo, unico giocattolo rimasto a farlo sognare.

E’ questo bambino a fare amicizia con l’ultimo abitante del sotterraneo. Un vecchio nigeriano, malato e stanco, che cerca di raccogliere elemosine da inviare ai cari nella sua terra.

I due appartenenti a due epoche e mondi tanto lontani riescono a condividere intimamente la dura realtà ed entrare in una intimità spirituale che li legherà fino al’estremo commiato.

Altre vicende di inquilini si intrecciano con quelle dei protagonisti principali, perlopiù persone contrarie agli immigrati; anime a loro volta sottomesse a regole sociali inique che si arrangiano con
raccomandazioni, scorciatoie e illeciti atti ad aggirare gli ostacoli di una burocrazia lenta.

La signora Eva è una ex deportata ad Aushwitz poco più che bambina. Ha visto morire altri bambini, la madre e il fratello. Le cose che vede alla finestra le ricordano momenti di prigionia e confonde il presente col passato. Misha, un nome che talvolta implora commossa, è il soldato russo che le darà da mangiare alla liberazione del campo tedesco ( finale del romanzo). IMPORTANTE: lei da piccola era stata dapprima affidata a un’altra famiglia, per sfuggire dai rastrellamenti, ma poi era stata presa lo stesso e ritrova i parenti in campo di concentramento.

Robert, il ragazzo romeno si pente di vivere di espedienti con Saif e cerca più volte Fatima, perché è innamorato. Anche lei lo è, in segreto, ma non lo vuole ammettere, non vuole confondersi con altri spiantati come il fratello e soprattutto non può tradire le usanze della sua terra, quindi lo rifiuta offesa. Robert, sfiduciato dal rifiuto, avvilito per la sua condizione e quella della sua famiglia, affronta Saif, il fratello di Fatima, e si prepara ad andarsene al nord per un lavoro onesto. Rivede Fatima, le chiede di sposarlo e andare via con lui. Lei rifiuta e lo abbandona straziata, ma dopo ripensamenti e altri eventi alla fine fuggono insieme sotto lo sguardo della signora Eva.

I 4 siriani litigano: 1 torna a combattere per difendere la terra curda. 2 scappa per difendersi dallo sfregiato che lo vuole uccidere. 3 lo sfregiato viene scoperto ( è un mercenario che si fingeva soldato)e uccide 4 il ‘sergente’. Poi lo sfregiato lotta con Saif, il ragazzo pakistano, e sta per sopraffarlo quando arriva il padre ( di Saif , Fatima e della piccola Marikha).
Il padre viene pugnalato, e mentre lo sfregiato scappa, lui convince il figlio a scappare per non essere arrestato e/o riportato in Pakistan.

Intanto il nigeriano morente dona i risparmi alla famiglia afgana che parte. IL BAMBINO prima di lasciarlo gli regala il soldatino( l’unica cosa che possiede) sperando gli faccia compagnia e lo accompagni poi da loro se guarisce. Mentre vanno via succede la rissa e la signora pakistana, Adila, spaventata per il marito morente e il figlio Saif che fugge, si rende conto che faranno una brutta fine. AFFIDA LA PICCOLA Marikha all’altra famiglia che ha ancora i documenti della figlioletta morta in mare. 
Quando questi se ne vanno vengono visti dalla signora Eva, che ha capito che la bambina è affidata alla nuova famiglia come era successo a lei, e grida disperata che la rivedranno solo quando sarà troppo tardi.

La polizia interviene e trovano anche il cadavere sorridente del nigeriano che ancora stringe in mano il soldatino a cavallo

 

 

 

 

 

 

 

 

A seguire la recensione del Prof. Antonino Cusumano, dell’Università degli Studi di Palermo, intervenuto all’evento di lancio del libro, presso La Feltrinelli, via Appia Nuova, 427, Roma, il 28 Maggio 2018, sotto il patrocinio di Amnesty International ed in collaborazione con AracneTv.

    A segnare contro ogni resistenza e opposizione un processo – lento ma ineludibile – di penetrazione e di integrazione degli immigrati nelle società e nelle culture europee è senza dubbio quella produzione narrativa che, non senza qualche approssimazione, abbiamo imparato a chiamare “letteratura della migrazione”, con autori stranieri di prima o seconda generazione che nel testimoniare in scrittura le proprie esperienze gettano il loro sguardo sul nostro mondo e sui nostri modi di abitarlo, e ci aiutano a scoprire ciò che siamo, al di là e spesso a dispetto di ciò che diciamo di essere. Una rifrazione ottica che nello specchio autobiografico dice di noi molto di più di quel che racconta di loro. Un prezioso contributo alla faticosa opera di decostruzione di certe rappresentazioni etnocentriche e postcoloniali.

Alla medesima categoria della letteratura della migrazione occorre tuttavia annettere anche le narrazioni degli scrittori europei che incrociano il loro sguardo con quello dei migranti stranieri e ne raccontano senza ideologie, senza esotismi e senza pietismi le concrete vicende, convertite e confluite nelle trame dell’immaginario. Differenti registri linguistici si sovrappongono e si contaminano nelle strategie retoriche della scrittura: lo scandaglio etnografico e la introspezione narrativa, l’attenzione per il rilevamento documentario e la sapiente tessitura dei ritmi descrittivi e dialogici. Un gioco di sconfinamenti tra il reale e il possibile, tra il dato empiricamente osservato e l’invenzione della vita raccontata, tra la parola come segno e la parola come metafora. Un incessante e incerto pendolarismo tra il particolare e l’universale.

Su questo sottile crinale si muove lo scrittore che raccoglie le voci dei migranti per restituirne le storie, in una sorta di colloquio ermeneutico tra l’autore e le persone che incarnano i suoi personaggi, uomini e donne coi loro vissuti personali, non astratte figure di lontane culture ma concreti profili di soggetti con le loro debolezze e le loro speranze. Dentro questa dimensione narrativa e ai confini tra verità e verosimiglianza, tra documentazione storica ed elaborazione di storie, tra cronaca e racconto, si iscrive questo libro di Paolo De Angelis, che già nel titolo sembra voler rovesciare l’aspettativa e la prospettiva convenzionali, scompaginando e disarticolando i punti di vista che sulla medesima, cupa e angusta realtà assumono i diversi personaggi. Interpreti esemplari della profonda crisi collettiva dell’abitare e del convivere che sta attraversando il nostro Paese, i protagonisti rappresentano vicende, atteggiamenti e sentimenti riconducibili alle dinamiche urbane della quotidianità, agli umori e al senso comune della complessa società contemporanea.

Al centro di tutta la narrazione è la relazione spaziale, lo spazio metafora del potere e della condizione umana, dei rapporti tra chi è dentro e chi è fuori, tra i salvati e i sommersi, tra i penultimi e gli ultimi. Sappiamo che al processo di contrazione del mondo si accompagna la ridefinizione delle distanze fisiche, dei confini reali e simbolici, dei perimetri di azione e di gestione fino alla formazione dei ghetti e delle enclave. Esperienze e pratiche sociali dipendono, in tutta evidenza, anche dalla natura dei luoghi, dalla qualità degli alloggi. La convivenza è sempre una sfida che si gioca nella negoziazione delle frontiere fra gli spazi e i tempi per sè e quelli destinati alla socialità, all’incontro con l’altro, allo scambio. Da qui tensioni e conflitti nell’organizzazione e nell’egemonia territoriale dei contesti urbani dove, a livello locale dei quartieri, coabitano sempre più spesso soggetti e gruppi di culture diverse, con una significativa eterogeneità di costumi, di mentalità, di stili e modelli di vita.

Non c’è luce in quel «sordido sottoscala», nel seminterrato di quel palazzo dove tutto si svolge e si consuma. Nei piani abitano le famiglie italiane con i loro affanni, le loro contraddizioni, le piccole virtù e le grandi miserie morali. Un’umanità frustrata, impaurita, incattivita. Ma basta scendere pochi gradini per precipitare in una sorta di asfissiante discarica, nell’inferno di «cunicoli chiamati corridoi», dove una pallida e fluttuante lampadina ricorda a Zhara «quell’oscillazione altalenante, perpetua e minacciosa» dell’onda alta del mare durante la traversata. Nel tanfo e nella penombra di quello spazio ristretto, dentro ambienti simili a piccole celle, profughi pakistani, afgani e siriani, uomini, donne, adolescenti e bambini, nonché un anziano e malato nigeriano, convivono faticosamente condividendo diffidenze e progetti, clandestinità e destini.

«Qui non c’è posto per tutti» dice Adila alla coppia di afgani appena arrivati, ripetendo parole e disprezzo a difesa di uno spazio di cui si è egoisticamente gelosi e su cui si innalzano muri per confini. In questa frase, che sembra accompagnare come un nervo scoperto tutto il racconto di De Angelis, – a guardar bene – c’è qualcosa dello spirito pubblico e dello stato d’animo del nostro Paese: lo spazio come terra e suolo da proteggere, sangue e appartenenza da rivendicare. All’ombra del disagio economico e dell’incertezza identitaria è cresciuta infatti l’estrema e rovinosa polarizzazione noi/loro, che la letteratura, quando è testimonianza ed epifania dell’umano, sa restituirci come in uno specchio,  un’immagine riflessa che ci aiuta a guardarci vivere, a conoscere meglio chi siamo o cosa stiamo diventando.

Così nel groviglio condominiale, ove la vita è fatta di stenti e di soprusi, di segrete aspirazioni e di violente repressioni, di rassegnazioni e di ribellioni, di esasperati e istintuali individualismi, i migranti, con la loro presenza ingombrante e imbarazzante, il fardello delle loro storie difficili e lontane, l’oscurità delle loro lingue e dei loro dèi, mettono in crisi le nostre categorie mentali e comportamentali, gettano nel caos l’ordine delle nostre abitudini, ci costringono a ragionare sui nostri modi di vivere e di pensare, sul senso di ciò che facciamo, dei gesti che compiamo, delle parole che diciamo, delle identità che agitiamo. A fronte del percorso esistenziale di ciascuno degli stranieri, che al di là delle diverse etnie sono riconoscibili nella condivisione di un’umanità precaria alla ricerca di un qualche riscatto, il nostro sguardo su di loro appare appannato da paure e pregiudizi, impigrito da inerzie e sospetti, che impediscono di vedere, di avvicinarsi e di capire.

Da un lato, Fatima, la giovane pakistana, che spezza i lacci della cieca obbedienza all’autorità familiare, sfida il potere opprimente delle tradizioni per guadagnare libertà e autonomia: «quell’esodo aveva avuto il torto di rivelare quanto fosse immenso l’orizzonte e quante vie si potessero intraprendere seguendo la propria ispirazione». Non è senza significato che si trova a suo agio soltanto tra i chioschi del mercato, luogo elettivo delle contaminazioni e delle commistioni culturali: «lì non era la figlia o la sorella di qualcuno, semplicemente Fatima», una ragazza che pensava fosse «troppo breve l’adolescenza, se vissuta nel nomadismo, e troppo cupa la libertà se consumata in un sottoscala».

Dall’altro lato, i De Santis e i tanti inquilini come lui, che tra paternalismi e razzismi non riescono ad accogliere, a comprendere, ad accettare l’altro, il diverso. E se alcuni chiedono «che sgombrino quell’immondezzaio là sotto», altri sfruttano col pizzo e con l’affitto quei  rifugiati nei miserabili tuguri dei seminterrati. In mezzo, i bambini che s’incontrano e giocano nel cortile, inventandosi un destino diverso da quello dei vinti a cui sembrano essere verghianamente rassegnati gli esuli, per i quali – confessa Adila – «non bastano i documenti e le buone intenzioni: siamo stranieri».

Nel racconto costruito da Paolo De Angelis c’è però un’altra protagonista che occupa la scena fin dalla prima pagina e la sua voce  – dagli accenti allucinati e visionari – attraversa le vicende in contrappunto, il suo sguardo sulla vita degli altri dietro i vetri della finestra sembra incarnare memoria e profezia, la storia del terribile passato e quella che scorre nell’inconsapevolezza del presente. Eva è una vecchia signora che apparentemente confonde il presente col passato, l’esperienza vissuta nel campo di concentramento ad Aushwitz – i  rastrellamenti, le peripezie, la fame e le violenze – con le vicissitudini dei profughi, le loro traversìe e gli espedienti per sopravvivere, le vite sequestrate nella clandestinità, le privazioni dei bambini. «Perché i bambini? Perché tutto questo?» si chiede, mettendo insieme immagini di uno spazio e di un tempo diversi, in un toccante flashback narrativo. La sua ingravescente demenza è paradossalmente la chiave di lettura più lucida ed efficace per capire quanto oggi ci sta accadendo, non solo davanti a noi ma soprattutto dentro di noi.

Nell’abisso dei ricordi in cui è precipitata, Eva ritrova le ombre lunghe e cupe della sua infanzia, il dolore di «ferite che mai si sarebbero cicatrizzate». E il trauma della sua memoria si scioglie e si rende indistinguibile da quello dei migranti inseguiti dalla morte, sfuggiti alle guerre, sopravvissuti ai naufragi, tormentati dai rimorsi. «Figli tolti dai giacigli e trascinati in terre martoriate, mine sotterrate appena sotto i loro piedini e altre bombe che scendevano dal cielo». L’insostenibile peso dei ricordi conserva nelle orecchie di Hassan il fragore dei bombardamenti scoppiati nel conflitto fratricida in Siria, dove aveva visto morire i suoi genitori senza essere capace di scegliere un fronte e lottare. «Se ne era andato da quel paese con la pusillanime scusa di procurare soldi da inviare all’altra sorella e alla sua numerosa famiglia, ma il dilemma lo assillava ogni giorno che apriva gli occhi in quel nuovo territorio». Per Adila resta sordo e incancellabile il rumore dell’acqua che nella burrascosa traversata  ha rapito la figlia, tragicamente scivolata tra i flutti «In certi momenti la luna usciva dalle nuvole e allora: terrore. La luce faceva brillare la schiuma tutto intorno sopra le onde. Erano così alte che allora sembravano bocche, grandi bocche pronte a ingoiarci in ogni istante; muri che precipitavano addosso a noi per schiacciarci e solo all’ultimo minuto si ritiravano. Scaraventati qua e là avevamo tanta paura e preferivamo che tornasse il buio, almeno non avremmo visto più niente».

Nel tempo capovolto che abitiamo, dove si fa la guerra a uomini, donne e bambini che fuggono dalle guerre, solo gli occhi stanchi e dolenti di Eva riescono a vedere le deportazioni che si nascondono nelle migrazioni forzate, il genocidio dei desaparecidos inghiottiti dal mare, le vittime della più grande tragedia umanitaria dal dopoguerra ad oggi. Presentificando il dramma storico dell’Olocausto simbolicamente rivissuto nella tratta dei profughi organizzata dagli aguzzini di oggi,  siano essi scafisti, tagliagola, sfruttatori o estortori, la vecchia signora, che «dalla finestra della sua camera al primo piano assiste ogni giorno a quel’interminabile romanzo che è la vita degli altri, di tutti gli altri», vede al di là delle nebbie e dei fumi lo scandalo della Storia e ripete le domande che porranno i nostri figli quando domani ci chiederanno che cosa abbiamo fatto quando tutto questo accadeva.

Conclusa la lettura e chiuso il libro di Paolo De Angelis restiamo avviluppati nel greve pallore delle giornate fredde e grigie che hanno scandito il racconto, stretti nell’umidità delle piogge incessanti di un eterno autunno. Ci resta  l’odore acre di luoghi nascosti e spazi inospitali, gremiti di voci e privi di luce. Ci lascia infine – unica illuminazione nell’alba della liberazione del campo tedesco – il gesto pietoso di Misha, il soldato russo che offrì del pane alla piccola Eva sopravvissuta a stento alla fame. Usciamo dal fondo buio dei corridoi del sottoscala con questa immagine, in dissolvenza temporale ma non in dissonanza concettuale, che nell’epilogo del racconto ha il valore di un auspicio, di un monito, di una speranza.

Elio Vittorini distingueva i libri in due categorie: quelli che, leggendoli, fanno pensare “ecco, è proprio vero”, danno cioè la conferma di “come” in genere sia nella vita. E quelli che fanno pensare “perdìo, non avevo mai supposto che potesse essere così!” e rivelano cioè un nuovo particolare “come” sia nella vita. Legittima offesa solleva epifanicamente il velo su un un’umanità che abbiamo condannato e confinato nei seminterrati delle periferie, su una realtà che ci è vicina e non riusciamo o non vogliamo vedere, su quegli «alveari ronzanti», di cui ha scritto Domenico Quirico, evocando la insistita e dissimulata presenza di quanto di impercettibile e di invisibile e pure irresistibile la Storia sta preparando per noi, oltre di noi, per le generazioni che verranno, il mondo di domani.

 

Antonino Cusumano

 

Un ringraziamento particolare ad AracneTv che ha documentato la presentazione del 28 Maggio 2018, presso La Feltrinelli, via Appia Nuova, 427, Roma.
Foto e video dell’evento disponibili su AracneTv.

* Errata corrige video: riferimento errato al Prof. De Angelis dell’ Università La Sapienza di Roma, anzichè medico specialista in psicoterapia.